Quando parliamo di Medicina Omeopatica e di rimedi omeopatici, spesso ci confrontiamo con un’opinione pubblica che la considera alla stregua di una tecnica terapeutica alternativa; quando, in realtà, è bene ricordare che si tratta di una vera e propria episteme. Una scienza medica non convenzionale che, come ogni disciplina, ha dato origine ad un proprio modello e ad un modo specifico sia di interpretare la sofferenza del paziente che, di conseguenza, trattarne le relative manifestazioni.

E’ importante riflettere, prima di tutto, su un concetto di epistemologia della medicina e fare un distinguo tra conoscenza medica e conoscenza scientifica. Se l’oggetto di studio dello scienziato sono i fenomeni tipici, quelli consueti e nella norma; l’uomo di medicina si trova a studiare i fenomeni atipici, anormali, morbosi. Considerando che non è possibile incontrare, tra pazienti affetti dalla stessa patologia, un quadro clinico identico, è evidente che il medico si imbatterà in un ampio spettro di variabili individuali di possibili fenomeni morbosi. Ma in questa straordinaria sovrabbondanza di variabili sempre differenti, come è possibile trovare una legge di ordine superiore che dia conto di fenomeni tanto irregolari? Questo è il problema fondamentale che si è posto il nostro modello medico accademico/convenzionale da trecento anni a questa parte: trovare determinate leggi che abbraccino e riuniscano sotto una serie di unità morbose l’intera profusione di caratteristiche individuali della malattia.

Se nell’ambito degli studi biologici e neurofisiologici si è fatta strada la teoria dei sistemi autopoietici che considera i sistemi viventi sulla base della rete di relazioni che li determinano e la cui caratteristica fondamentale è quella di essere dei sistemi complessi interagenti che si auto-organizzano continuamente; le relazioni tra i fenomeni dei sistemi biologici stabilite dalla medicina convenzionale si sono fermate al pensiero meccanicistico e deterministico di causalità lineare di galileiana memoria: una concezione riduzionistica che appiattisce le diverse forme di sofferenza del vivente con l’esclusiva ricerca e individuazione di un difetto locale o molecolare del corpo-macchina ed il cui approccio si limita alla modificazione farmacologica, chirurgica, genetica di quel meccanismo organico. Questo fa si che la malattia non venga considerata come un modo di funzionare, di organizzarsi, di adattarsi del paziente, ma come una cosa – un’entità nosografica, appunto – che abita e penetra nell’organismo e che bisogna stanare, combattere e debellare: l’approccio terapeutico convenzionale è diventato una guerra tra il medico e la malattia; ed il paziente, ritratto sfocato in questo quadro patologico, è il territorio su cui questa guerra si combatte.

Questa classificazione, semplificazione e riduzione della complessità della Natura ad elementi “oggettivamente” conoscibili, misurabili e quantificabili ha avuto, nella vita pratica, sicuramente la sua efficacia ma, di fatto, ha anche accentuato il rifiuto e l’eliminazione dell’essere, dell’individuale e del singolare.

Le entità nosografiche che, nel corso della storia della medicina accademica, hanno permesso di conoscere ed approfondire i processi fisiologici e patologici dell’Homo sapiens e di altre specie, nella Medicina Omeopatica sono state fin da subito contestualizzate nel vissuto del paziente. Contestualizzare vuol dire dar voce all’esperienza soggettiva del paziente: di come soffre, più di che cosa soffre; considerando che nessuno meglio di lui è in grado di comunicare il proprio disagio e, quindi, di guidare il terapeuta a valutare una terapia che rispetti i livelli di organizzazione e disorganizzazione del sistema, fornendo uno stimolo fisico – un’informazione – nella direzione più simile possibile a quella già intrapresa dal sistema stesso.

E’ possibile, infatti, definire la Medicina Omeopatica una medicina della corporeità che, come tale, non si limita ad analizzare asetticamente i segni/sintomi clinici individuabili in un organismo, ma li colloca nel corpo vissuto, vivo e vivente: il corpo della vita connotato dai modi con cui la si vive (emozioni, desideri, fragilità, vulnerabilità).

Le domande che ci poniamo in quanto terapeuti di un pensiero della complessità sono: il sistema che stiamo prendendo in considerazione, come si relaziona con se stesso e con il mondo? Le possibili strategie adattative messe in atto, che funzione hanno per l’economia generale del sistema stesso?

Nell’uomo, il canale di comunicazione verbale (il relato del paziente) ci aiuta sicuramente a cogliere le diverse sfumature, le diverse linee di tendenza nel proprio modo di abitare la corporeità e di abitare lo spazio-ambiente; non possiamo certo dire lo stesso degli animali non umani ma, in ogni caso, il loro mondo interno è espresso, “portato fuori” attraverso il comportamento che, spesse volte, sembrerebbe davvero mancare solo della parola. Inoltre, operando in una chiave sistemica, è imprescindibile considerare con gli animali addomesticati quella che è l’entità di relazione mutualistica con il proprietario (o con chi se ne prende cura) partecipando all’ascolto delle sue possibili osservazioni e percezioni; saranno, infatti, quest’ultime (anche le più proiettive o reificanti) a raccontarci di come funziona il sistema “famiglia”, il sistema “stalla”, il sistema “scuderia” e a permetterci di ampliare l’orizzonte dimensionale del soggetto e della propria relazione con il mondo.

E’ fondamentale riconsiderare i pazienti, tutti – umani e non umani – come interlocutori e non solo come oggetti di studio; riflettendo sul fatto che, stando al principio di indeterminazione di Heisenberg, questa “oggettivizzazione” e questa ricerca di obiettività è comunque di natura relativa e mai assoluta.

Tutto ciò serve a noi medici omeopati per ipotizzare un’organizzazione coerente delle manifestazioni somatiche ed emotive e giungere ad una lettura d’insieme che è il rimedio omeopatico. Ogni rimedio – nato dall’osservazione sperimentale nella persona sana dei sintomi prodotti da una sostanza (di origine minerale, vegetale, animale, fungina ecc.) che è stata diluita e dinamizzata – è una ricerca di relazione tra l’anthropos ed una specifica sostanza. Una ricerca che va ben oltre la semplice tossicologia comunemente intesa e che spazia nei vasti ambiti dall’esperienza fisica, emozionale, comportamentale, onirica; qualcosa che ci racconta di che cosa succede quando l’anthropos entra in relazione con un’altra identità, con un altro sistema organizzato. Sono i sintomi che emergono nella sperimentazione omeopatica (provings) ad informarci come quella identità si manifesta nell’Homo sapiens. Leggendola secondo la teoria dei sistemi complessi, ogni sostanza – minerale, vegetale, animale, fungina, monera, protista che sia – per essere quello che è, deve aggregare, organizzare i suoi elementi più semplici in una maniera specifica che gli è del tutto propria. Ogni sostanza, anche un diamante, mette in atto delle proprie strategie adattative che le consentono di essere quella determinata entità e non un’altra. Se non ci limitassimo al concetto antropocentrico di “mente” fondato sull’anacronistico cogito cartesiano, potremmo – come dimostrato dai biologi Maturana e Varela – ampliare l’area semantica della “mente” fino a designarla come la capacità organizzante e auto-organizzante di qualsiasi sistema che abbia una sua forma di vita; una lettura che risulta certamente meno complessa studiando un animale o una pianta, rispetto all’esistenza (apparentemente) più statica di un minerale.

Ciò ci porta a prendere in considerazione in maniera più approfondita quel principio utilizzato da tempo nella medicina tradizionale e ripreso ed affinato poi da Hahnemann nella sua medicina: il principio di similitudine. Curare con il simile – “Similia similibus curentur” – designa un tipo di corrispondenza profonda tra curante e curato, dove si rispettano le capacità di reazione intrinseche di un sistema (invece di sostituirle attraverso un intervento contrario) e dove viene fornito uno stimolo più simile possibile nella direzione già intrapresa dal sistema stesso. Il rimedio, come la parola analitica, è uno stimolo attivatore di disposizioni latenti che aspettano di emergere in un momento di crisi e di difficoltà; è un elemento dinamico che aiuta “l’andare verso se stesso”.

Questa corrispondenza tra i simillima può essere letta a diversi livelli di profondità. Il livello più superficiale corrisponde a considerare un’analogia tra emergenze sintomatiche, individuando le correlazioni tra sintomi presentati dal paziente e quelli prodotti in una persona sana a seguito dell’assunzione sperimentale di una sostanza diluita e dinamizzata (rimedio omeopatico). Se, però, allarghiamo il nostro orizzonte studiando il sistema/rimedio ed il sistema/paziente come due insiemi organizzati che – nell’anthropos – esprimono lo stesso “pathos”, potremmo leggere questa similitudine, non soltanto nella semplice e superficiale analogia di forma, ma anche nelle dinamiche che definiscono i processi e le strategie adattative di entrambi. Per usare le parole del Prof. Alberto Panza, ogni rimedio può essere letto come un “modello antropologico” dove la lettura organizzata e coerente dei fenomeni clinici – attraverso quella che il Dott. Massimo Mangialavori definisce, nel suo metodo della Complessità, “tematizzazione” – ci aiuta a tratteggiare non soltanto i processi morbosi, disfunzionali di un sistema vivente, ma anche le sue modalità generali di funzionamento.

Lo stesso concetto potremmo ipotizzarlo per i nostri animali non umani, in cui l’efficacia della Medicina Omeopatica è stata ormai ampiamente comprovata, permettendo addirittura di stemperare lo slogan “effetto placebo” attribuitogli dalla medicina convenzionale. In medicina veterinaria, infatti, ci si è resi conto di come il principio di similitudine, applicato ad un livello anche solo superficiale, abbia la sua importante rilevanza terapeutica. Quello verso cui, però, potremmo tendere – in quanto figli di un pensiero scientifico e di un approccio sistemico – è l’esplorazione di un’analisi coerente ed organica anche dei diversi fenomeni clinici che possono essere osservati in sistemi eterospecifici come quelli degli animali che intendiamo curare, e provare a formulare delle inferenze di lettura dei rimedi come se fossero dei “modelli zoologici” più che antropologici; facendo emergere le caratteristiche organizzative e cognitive di un sistema specie-specifico diverso dal nostro ed evitando la tendenza sim-patica ad interpretare la mente animale attraverso proiezioni antropomorfiche che, più che rispettarne la specificità, la banalizzerebbero in modo caricaturale alla mente umana.